Ifigenia in Tauride
57a Stagione Teatro Greco di Siracusa
di Euripide
regia Jacopo Gassmann
traduzione Giorgio Ieranò
regista assistente Mario Scandale
scene Gregorio Zurla
disegno luci Gianni Staropoli
assistente disegno luci Omar Scala
contenuti video Luca Brinchi, Daniele Spanò
costumi Gianluca Sbicca
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
maestro del coro Bruno De Franceschi
movimenti Marco Angelilli
direttore di scena Nanni Ragusa
Personaggi e interpreti (in ordine di apparizione)
Ifigenia Anna Della Rosa
Oreste Ivan Alovisio
Pilade Massimo Nicolini
Bovaro Alessio Esposito
Toante Stefano Santospago
Messaggero Rosario Tedesco
Coro di schiave greche Anna Charlotte Barbera, Luisa Borini, Gloria Carovana, Brigida Cesareo, Roberta Crivelli, Caterina Filograno, Leda Kreider, Marta Cortellazzo Wiel, Giulia Mazzarino, Daniela Vitale
Esercito dei Tauri Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Domenico Lamparelli, Matteo Magatti, Jacopo Sarotti, Damiano Venuto
coordinatore allestimenti Marco Branciamore
progetto audio Vincenzo Quadarella
responsabile sartoria Marcella Salvo
responsabile trucco e parrucco Aldo Caldarella
scene realizzate da Laboratorio di scenografia Fondazione INDA
costumi realizzati da Laboratorio di sartoria Fondazione INDA
Come scrive Mario Untersteiner, la sofistica “è l’espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria e perciò tragica sia la realtà”.
Euripide, il filosofo della scena, conosceva bene i sofisti (frequentò Anassagora, Protagora, ne assorbì lo spirito critico) e scrisse questo dramma straordinariamente denso e problematico in un momento di profonda crisi della cultura e della società ateniese. Mentre la città perdeva la propria supremazia militare nella guerra con Sparta, i filosofi cominciavano a porsi domande sulla natura sfuggente della realtà e sul nostro modo di percepirla. Qual è la natura della realtà? Quali sono le basi per credere a ciò che vediamo, a ciò che ascoltiamo? Come possiamo stabilire che qualcosa è quel che è se il linguaggio sembra trarci in inganno e la verità tende a nascondersi? I miti e gli dei possono essere messi in dubbio ? Sono anch’essi soltanto parole? È da queste domande che sembra prendere forma la Tauride di Euripide, un portentoso labirinto della mente, un paesaggio lunare e metafisico costellato di enigmi, dove i venti, i mari, il tempo, la sorte sembrano delle forze imprevedibili che amplificano i nostri dubbi e dove le divinità sembrano giocare silenziosamente a dadi con il nostro destino. Ifigenia in Tauride è infatti un testo intriso di domande e contraddizioni, a partire dalla sua natura stilisticamente ibrida. È una tragedia profondamente scura e inquieta che si trasforma improvvisamente in quella che la critica ha definito una “escape tragedy”, una sorta di fuga rocambolesca da un posto dove apparentemente si compiono sacrifici umani ma che, a uno sguardo più approfondito, rivelerà una natura molto più ambigua. Ci troviamo infatti in un luogo dove niente è quel che sembra. Una terra fatta di doppi, di proiezioni fantasmatiche e improvvise apparizioni. I personaggi infatti sembrano appena usciti da un sogno, in quel preciso istante del dormiveglia in cui si tenta di ricomporlo, provando a rimetterne insieme i segni e le tracce.
È Ifigenia stessa, all’inizio del dramma, a introdurci in questo luogo così sfuggente: ci racconta di quando, ancora fanciulla, venne strappata all’abbraccio di sua madre e portata in Aulide attraverso l’inganno. La profezia di Calcante aveva decretato che la bimba dovesse essere sacrificata affinché gli Achei potessero salpare per Troia. Le raccontarono che sarebbe andata in sposa ad Achille ma, appena giunta in Aulide innanzi al padre e ai generali dell’armata, venne sollevata in aria e le tagliarono la gola. O forse no. È sempre Ifigenia infatti – qualche verso più in là – a raccontarci che Artemide in realtà la salvò, rapendola di nascosto attraverso il cielo luminoso, lasciando al suo posto una cerva.
Sembra che Euripide si diverta fin da subito a mischiare le carte in tavola, mettendoci di fronte a una serie di paradossi e contraddizioni: Ifigenia sembrerebbe dunque viva, ma parla di sé come se fosse morta. La dea l’ha salvata dall’assassinio ma poi, stranamente, l’ha messa a presiedere un luogo di morte. La sua profonda, struggente nostalgia per la Grecia è spesso congelata da improvvisi e violenti moti di rabbia verso la sua gente che l’ha prima ingannata – forse addirittura uccisa – e certamente dimenticata. È ugualmente difficile sapere con certezza se la sacerdotessa si limiti a preparare e a celebrare i riti di morte o se sia lei in persona a compiere i sacrifici umani (il testo tende a mantenere questa ambiguità). Il luogo stesso in cui ci troviamo è una terra dove pare si uccidano gli stranieri, ma di sangue in realtà non ne vedremo mai. Questi Tauri del resto hanno qualcosa di perturbante. Sono estranei, certo, ma ad uno sguardo più attento sono molto più simili a noi di quanto non vorremmo mai ammettere. Per questo ci terrorizzano. Euripide chiama la Tauride πόλις, gli abitanti del luogo πολῖται, il loro tiranno inorridisce di fronte al racconto del matricidio di Oreste. Sembrerebbe, in questo gioco di specchi e continue contraddizioni, che i greci vengano volutamente barbarizzati e i barbari volutamente ellenizzati. Sarebbe troppo facile individuare il male in questi stranieri. Il grande tempio senza tempo innanzi al quale si svolge la tragedia – a sua volta un potente generatore di immagini e contenuti inconsci – sembra proprio ricordarci che il nemico è (quasi) sempre interiore.
Non ci sono equazioni facili in questa terra, in questa tragedia così incerta eppure così terribilmente viva.
È chiaro come l’autore sia interessato a porci di fronte a una realtà complessa e contraddittoria, prima mandando in corto circuito la nostra percezione, i nostri sensi, poi chiamando in causa la nostra memoria culturale. Ifigenia in Tauride infatti prende spunto dall’Orestea di Eschilo ma devia dai fatti noti, li riscrive, li problematizza, rifacendosi a ulteriori varianti del mito: il ragazzo smarrito che, insieme al fedele Pilade, si presenta di fronte a noi non è l’Oreste che conosciamo dalla trilogia eschilea. Lo ritroviamo qui in una versione controfattuale, inseguito e tormentato da alcune Erinni che non hanno affatto accettato la sentenza di Atena e lo hanno trascinato in una fuga estenuante, portandolo ai confini della terra (e della follia). Apollo stesso sembra essersi preso gioco di lui, mandandolo a recuperare la statua di Artemide in questa terra di nessuno, da cui sembra impossibile fuggire. I personaggi hanno inoltre una funzione metamitologica: parlano di se stessi in terza persona, sono fin troppo consapevoli dei loro miti e dei loro riti. Sembrano quasi uscire da un grande archivio borgesiano fatto di storie e sentieri alternativi, di citazioni di citazioni, che interpellano il nostro spirito critico rispetto agli eventi che si susseguono in scena.
Lentamente, mano a mano che ci addentriamo in questo testo così misterioso, si delineano temi di grande fascino e modernità.
Ci troviamo, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, in un luogo che pur avendo una sua concreta collocazione geografica (l’odierna Crimea), sembra assumere una valenza fortemente metaforica e mentale. Questa Tauride, lo dirà Ifigenia stessa nell’arco del dramma, potrebbe essere la copia o il rovescio dell’Aulide, e quindi anche un luogo dove vendicare e esorcizzare i mali del passato. Una sorta di limbo sospeso fra la vita e la morte, fra la veglia e il sonno, in cui i protagonisti sembrerebbero essere stati convocati per compiere un viaggio (o forse sarebbe più corretto parlare di attraversamento) profondamente personale e interiore. Jung, rivisitando il concetto di Nekyia – l’antico rito con cui si evocavano i morti – avrebbe definito questo viaggio come “l’introversione della mente cosciente negli strati più profondi della psiche incosciente… non una caduta nell’abisso distruttiva e priva di scopo, ma una significativa catabasi, il cui obiettivo è il ripristino dell’intero uomo.”
Ifigenia in Tauride, non scordiamocelo, è una tragedia di figli. Oreste e Ifigenia sono le ultime vittime di una dinastia sciagurata, una dinastia senza più padri, in cui si è versato molto sangue. Sulle loro spalle pesa la storia di tutti gli orrori del passato. Se all’inizio del dramma li ritroviamo a vagare, inquieti e pieni di domande, sotto un cielo plumbeo che sembra non avere più risposte, è proprio perché sono due personaggi tragici che, come sosteneva il grande Massimo Castri, hanno alle spalle la tragedia. Sono in un certo senso postumi di se stessi. E forse è proprio questa la chiave per tentare di avvicinarci ad alcuni misteri di questo testo così scivoloso. Oreste e Ifigenia sono infatti dei personaggi che – pur essendo degli accaniti ragionatori – nella prima metà del testo hanno una profonda difficoltà a decodificare gli eventi (i rituali e i sogni della ragazza si rivelano costantemente ingannevoli e beffardi, le imprecazioni di Oreste verso Apollo si perderanno nel vuoto). Ifigenia, peraltro, è completamente all’oscuro degli avvenimenti al di fuori della Tauride e non può che domandarsi, insieme al suo coro di ancelle (quasi un’estensione inconscia dei suoi pensieri), cosa sia successo in tutti questi anni di oblio. La loro unica arma per tentare di liberarsi dal peso della nostalgia e dall’impossibilità di sapere è la fantasia. Tutti i protagonisti, in un modo o nell’altro sono vittime inconsapevoli o smarrite di fronte a un passato ( e a un presente ) su cui possono soltanto fantasticare o rimuginare, restandone inevitabilmente schiacciati. Finché questo peso grava su di loro, non c’è spazio per alcun tentativo di reazione o liberazione.
La chance per interrompere questo strano sortilegio sembra giungere proprio a metà del testo, quando i due giovani prigionieri giungono di fronte al tempio della sacerdotessa per essere sacrificati. È proprio in questa meravigliosa scena di avvicinamento all’ἀναγνώρισις fra i due fratelli che sembrerebbe aprirsi un varco, un’occasione donata dal destino. Le risposte di Oreste sulla sorte dei guerrieri che tramarono il sacrificio della fanciulla in Aulide, lo straziante racconto del feroce destino di tutti i membri della loro famiglia e in fine il riconoscimento del fratello stesso hanno un effetto apparentemente paradossale su Ifigenia: è come se lentamente tutti i nodi si sciogliessero, come se tutti i tasselli e i frammenti sparsi di un terribile passato che non ha mai potuto conoscere (ma solo supporre, temere) si ricompattassero improvvisamente generando un potentissimo effetto di rischiaramento. Nel venire a conoscenza del proprio passato, della propria storia la ragazza ha finalmente la possibilità di riappropriarsi di sé. Di elaborare il lutto, in un certo senso. E quindi anche di nominarlo e osservarlo in tutta la sua dolorosa chiarezza.
È così che per Ifigenia (e per noi spettatori) comincia un nuovo viaggio all’interno del testo. L’improvvisa urgenza – narrativa, certo, ma ancor più interiore – di fuggire da quest’isola stregata porterà la protagonista a compiere dentro di sé una serie di spostamenti che la accompagneranno, nella seconda parte del testo, attraverso un vero e proprio viaggio di liberazione e di emancipazione. Da vittima del dramma ( e di se stessa), Ifigenia diventerà improvvisamente personaggio consapevole di essere scritto. Da questo momento in poi il passo sarà breve per concedersi la possibilità e la scelta di dire: se sono un personaggio scritto, posso io stessa scrivermi. Posso io stessa raccontare la mia storia e – forse – tentare di determinare il mio destino. Raccontare storie in fondo significa non solo riappropriarci di noi stessi ma anche raccontare la grande storia. È proprio a questo punto che questa terra desolata e questo grande tempio/inconscio – che all’inizio del dramma sembravano soltanto delle prigioni impenetrabili- cominceranno ad assecondare il risveglio della protagonista, divenuta ormai autrice e regista del testo stesso, generando sul palco – come in un grande archivio-museo a cielo aperto – ulteriori segni, ulteriori citazioni (letterarie, pittoriche, musicali) del grande mito di Ifigenia, accompagnandoci attraverso i secoli, fino ai nostri giorni.