Disgraced

Disgraced

di Ayad Akhtar
traduzione e regia Jacopo Gassmann
con Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana, Marouane Zotti
luci Gianni Staropoli
scene Nicolas Bovey
costumi Daniela De Blasio
assistente alla regia Mario Scandale
assistente scenografa Nathalie Deana

coproduzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Teatro di Roma – Teatro Nazionale

Premio Pulitzer 2013 per il Teatro
Finalista per la migliore regia al Premio Le Maschere del Teatro 2018
Finalista nella categoria “migliore nuovo testo straniero” ai Premi Ubu 2018

Lo spettacolo ha debuttato in prima nazionale alla Milanesiana nel luglio 2017.

New York, oggi.

Amir Kapoor, avvocato finanziario, educato e cresciuto in America ma di origini pakistane, sta velocemente scalando i gradini del successo allontanandosi, però, dalle sue radici culturali. Quando lui e sua moglie Emily, una pittrice newyorchese che sta portando avanti una ricerca su temi islamici, decidono di invitare a cena il noto curatore d’arte Isaac con sua moglie Jory, quella che comincia come un’amichevole conversazione velocemente si trasforma in un acceso confronto su alcune delle più complesse questioni del dibattito politico e religioso contemporaneo. In un perfetto meccanismo drammaturgico, i rapporti umani fra i protagonisti ne verranno profondamente modificati.

Disgraced è una moderna tragedia greca, ambientata in una Manhattan ricca, colta e liberale. Il testo ruota intorno a temi di fortissima attualità quali le potenziali tensioni fra le fedi religiose e il mondo odierno, la difficile e pur necessaria convivenza fra le diverse identità etniche, esplorando sia le possibili aperture ma anche le ipocrisie e i pregiudizi che spesso ne conseguono e che, come è stato sottolineato dalla critica,“tuttora segretamente persistono anche nelle cerchie culturali più progressiste”.

È un testo di chiara matrice americana, soprattutto nella misura in cui ognuno dei personaggi, a suo modo, sente fortemente sia il desiderio che la pressione di doversi allineare a un certo modo di essere dettato dalle narrazioni dominanti, che spesso costringono le minoranze a interiorizzare un senso di oppressione: “La doppia coscienza”, come diceva Du Bois, “questa particolare sensazione di guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri”. Ed è all’interno di questo orizzonte, così fortemente esacerbato in seguito agli eventi dell’11 settembre, che l’autore esplora quanto profonde possano essere le contraddizioni e le difficoltà di rappresentazione di sé per chi proviene da altri retaggi culturali e sta oggi cercando una sua identità nel nuovo paese d’adozione, come Amir Kapoor, moderna figura shakespeariana.

È l’autore stesso a fornirci un viatico al testo: “Vedo l’esperienza americana come un qualcosa che è definito dal paradigma di rottura e rinnovamento, tipico del migrante: la rottura con il vecchio mondo, le vecchie abitudini, e il rinnovamento del sé in un luminoso ma difficile Nuovo Mondo… Noi celebriamo il rinnovamento ma non riusciamo a elaborare la rottura. Questo fallimento indica la grande solitudine della vita americana.”

In uno scacchiere politico in perenne mutazione, sempre più soggetto a cicliche eruzioni di rabbia e irrazionalità, le identità conflittuali così palpabili in questo testo ci dimostrano quanto forte sia il disorientamento e quanto fragile possa essere la natura della tolleranza.

L’elemento che però, in ultima analisi, rende questa opera particolarmente viva (e toccante, a mio avviso) è la capacità dell’autore di porsi in ascolto di ciascuno dei suoi personaggi, avvicinandoli a noi nelle loro imperfezioni e vulnerabilità, nelle loro paure e contraddizioni. In questo modo non si può non arrivare a comprenderli, anche quando le differenze ideologiche sembrano mettere in scacco sia il loro che il nostro punto di vista.

Ayad Akhtar è un vero autore proprio nella misura in cui il suo teatro, nel chiamarci a una complessa verifica del nostro presente, non smette mai di rivelarci qualcosa di noi stessi.