Macbeth

Macbeth, Teatro Comunale di Bologna, foto ©Andrea Ranzi

Macbeth

di Giuseppe Verdi
Direttore Daniel Oren
regia Jacopo Gassmann

Nuova Produzione del Teatro Comunale di Bologna
Orchestra, Coro e Tecnici del TCBO

2 | 13 | 14 | 16 | 18 aprile
Comunale Nouveau, Bologna

Il mio Macbeth, viaggio al termine della notte

Intervista a Jacopo Gassmann di Andrea Maioli

Tanti, tantissimi Macbeth. Una storia delle arti piena di Macbeth. Qual è la sua visione?
Affrontare il Macbeth di Verdi presuppone che il regista debba comunque confrontarsi in qualche modo con un passaggio indifferibile: l’opera di Shakespeare. I percorsi e i pensieri sono stati tanti e io, per metodo, amo prepararmi dal punto di vista bibliografico in un modo rigoroso, proprio per comprendere i tanti metalivelli che compongono un classico di queste dimensioni.
Questo progetto ruota intorno a nuclei poetici e concettuali emersi prima di tutto appunto dalla lettura di Shakespeare, è lui che mi ha aperto le porte per accedere a Verdi. Si tratta di un lungo viaggio, quello di un uomo in particolare – e di una donna – alle radici del male, è l’inabissamento progressivo di una coscienza, di uno sguardo nel grande e inesplorato territorio del rimosso.

E con questa parola entriamo diretti nel campo della psicoanalisi…
L’opera ha molto a che vedere con il ‘rimosso’: il nostro Macbeth si cala in una valle del perturbante, quella cosa stranamente familiare ma anche sconosciuta che ci provoca sgomento, disorientamento. Macbeth vive in questa perturbazione dell’anima, incamminandosi inesorabilmente verso una notte in cui tutto è destinato ad andare male, in cui l’ordine delle cose, le gerarchie della natura e degli esseri umani vengono rovesciate. La natura stessa viene violentata, ferita, fino a giungere a una vera e propria eclissi della luce e quindi del senso. Tutte le apparizioni sono figure che si materializzano come fossero parte di un meccanismo che nasce da un desiderio profondo e rimosso del protagonista, figure che evoca lui, attraverso la sua mente poderosa e contorta. Già prima di Shakespeare, nelle Chronicles di Holinshed, si narra di questo King Duffe su cui poggerà le basi il personaggio shakesperiano e lì, si legge, per sei mesi si assiste a una eclissi di sole coincidente con l’uccisione del re.

Camminiamo sulla corda tesa che separa la luce dall’ombra.
Nella regia giochiamo moltissimo sul tema: siamo in un viaggio che procede dalla luce al buio. Nel testo shakesperiano troviamo un viatico al percorso verdiano: un momento molto preciso lo vediamo dopo la morte di re Duncan quando è Macduff a recarsi nelle stanze del re e scoprirne il cadavere. In Shakespeare, Macduff esce e pronuncia la frase ‘affacciatevi alla camera, e una nuova Gorgone vi accecherà. Non mi chiedete di parlare’. Leggendola il mio sguardo e il pensiero sono volati subito alla Medusa di Caravaggio che sarà evidentemente citata, apparirà, una enorme Medusa caravaggesca che fissa il suo sguardo su di noi, convocandoci inevitabilmente. La Gorgone: non possiamo guardarla negli occhi se non restandone pietrificati, la dobbiamo guardare e non possiamo guardarla. È questo il viaggio di Macbeth e noi siamo accanto a lui in una sorta di catabasi greca, un viaggio agli inferi in una galleria dell’indicibile, dell’impensabile, del rimosso appunto: dalla morte del re Duncan sarà un gioco al massacro dove si uccideranno bambini e donne con una ferocia senza limiti e senza tempo. La mia scelta registica vuole seguire la parabola discendente di questa coppia tenendo sempre presente la potenza certo distruttiva ma anche visionaria di Macbeth; un viaggio attraverso un museo degli orrori, fatto di citazioni di citazioni, una quadreria che si compone attraverso la potenza distruttrice e visionaria di quest’uomo, dove entriamo a nostro rischio e pericolo seguendo Macbeth e dove una Gorgone ci ammonisce: è una responsabilità che ci assumiamo, da spettatori, quella di guardarla negli occhi.

Un imperativo visionario che si forma nello spazio preciso del Comunale Nouveau…
Che mi ha affascinato moltissimo per la sua sorta di dimensione da Cinemascope: non abbiamo le altezze quindi dobbiamo muoverci tra larghezza e profondità. Ecco dunque l’idea di diversi livelli di sipari neri, che consentono giochi di velamenti e disvelamenti, apparizioni improvvise e scomparse. In questo impianto scenico ci saranno anche dei sipari semi trasparenti che ci consentiranno di intravedere sagome, proiezioni fantasmatiche ma allo stesso tempo consentirà ai protagonisti e in un certo senso allo spettacolo stesso di guardare noi, di scrutarci. Ho trovato subito la sintonia con questo spazio. Ho avuto la fortuna di conoscere un maestro indiscusso come Luca Ronconi che dava vita a regie utilizzando una sintassi coincidente con lo spazio e i movimenti nello spazio. Mi sono divertito a muovere questo spazio abituato come sono nella prosa alla costruzione di spazi sempre diversi. Ma attenzione, non si tratta solo di un ‘gioco’ visivo: lo stesso Verdi, grande anticipatore, proprio debuttando col Macbeth avrebbe voluto portare in scena una fantasmagoria, una sorta di lanterna magica. Lo si legge nei suoi carteggi dove insisteva per poter usufruire di questa macchina delle illusioni.
Oggi sappiamo che questo ‘fantascope’ non venne utilizzato ma noi oggi abbiamo le tecnologie per farlo e così vendichiamo il grande Verdi.

Entriamo in una scena specifica.
Facciamo l’esempio del banchetto. Entrano dai lati opposti del palco questi carri che portano ciascuno la metà di un tavolo destinato a ricongiungersi al centro. Gli ospiti non hanno abiti regali e non li indossano ma li ‘portano’ come mi è accaduto di vedere nella performance Embodying Pasolini dove Tilda Swinton ‘sfilava’ con i costumi dei film pasoliniani senza ‘vestirli’, ma mostrandoli. Qui il banchetto si fa spettrale, e questi abiti ‘non’ indossati ci parlano di un’incoronazione precaria, falsa, destinata alla catastrofe. Abbiamo anche un grande ledwall sul fondo che diventa in qualche modo un potente generatore di immagini dell’inconscio, in particolare nelle scene in cui Macbeth si confronta con le streghe o in quella dell’avanzamento della foresta, alberi generati dall’inconscio del protagonista, immagini molto potenti ma frutto della sua psiche, che appaiono nel momento stesso in cui lui le allucina. Alberi che crescono come strani gangli nervosi, che rimandano a sinapsi, a nervi ottici, a qualcosa che metastatizza. La foresta in cammino non è vera, è dentro la mente poderosa e contorta di quest’uomo.

Torniamo di prepotenza sul lettino dello psicoanalista…
Siamo al cospetto di una tragedia profondamente psicoanalitica, aspetto che peraltro in Verdi è molto sottolineato. Da sempre la critica si interroga su quale trauma si celi alla base di questa coppia diabolica. In Shakespeare leggiamo versi che rimandano alla possibilità di un figlio perso dalla coppia o forse solo da Lady Macbeth, forse un aborto, assenza presente ma lontana. Lo ha scritto Freud, Macbeth e Lady sono le due facce complementari che servono l’uno all’altra per formare la stessa psicopatologia – guarda caso spesso troviamo delle coppie alla base dei delitti più eclatanti e feroci –, non a caso una volta ucciso Duncan entrambi sviluppano due patologie diverse e complementari del sonno: a lui sarà negato, lei diventerà sonnambula. Tornando al tema dei bambini è chiaro che Macbeth è un uomo impossibilitato a essere padre e che quindi va ad eliminare tutti i padri: elimina il padre della patria per antonomasia Duncan, poi uccide un altro padre ovvero il suo migliore amico Banquo, e poi la famiglia del rivale Macduff che è a sua volta padre. Sublima la sua impossibilità a essere padre uccidendo e sostituendosi. Una strana visione di bambini appare sull’ultima aria, bellissima, prima della battaglia finale in Verdi: ‘Eppur la vita. Sento nelle mie fibre inaridita!’ ed ecco che anche se per poco, lo vediamo debole e affranto e abbandonato, circondato da questi bambini fantasma: quelli che non ha avuto, quelli che ha trucidato, il bambino che lui non è mai stato.

Tra le immagini iconiche più forti fra testo e opera quelle relative all’apparizione delle streghe.
Le streghe oggi, nel 2024, ci interessano relativamente, ci interessano le streghe che si muovono nella nostra testa. Allora l’incontro tra Macbeth e le streghe diventa una vera e propria seduta psicoanalitica dove al calderone si sostituisce uno specchio e dove le streghe saranno testimoni di questa tragedia privatissima; apparirà anche Macduff e anche lui verrà messo a sedere e i due si guarderanno in silenzio come nella performance di Marina Abramovic The Artist Is Present. Giochiamo di allusioni, di citazioni, di astrazioni; pareti bianche come tele pittoriche, da dipingere o da incidere, che celano sempre qualcosa che sta avvenendo dietro perché spesso la violenza più terribile e più pietrificante è quella che non vediamo: queste pareti andranno a celare questa violenza, qualcuno guarderà dietro, ma non saremo noi. Non vedere ma sapere che là dietro qualcuno sta morendo, facendolo solo immaginare, lo rende più potente. Un Macbeth molto astratto, una regia in sottrazione e non in accumulo, dove restano solo tracce, come quando ci risvegliamo da un sogno cercando di ricomporne i frammenti.

Parlavamo di padri e di figli. A questo punto diventa inevitabile riandare con la memoria al ‘Macbeth’ che suo padre Vittorio Gassman portò in scena nel 1983 e che lei nel corso del tempo avrà visto, rivisto, analizzato…
Dal punto di vista registico non mi ha influenzato, da un punto di vista di forze inconsce e ignote a noi stessi è evidente che l’uomo che mi ha cresciuto e che mi leggeva Shakespeare quando ad altri miei coetanei venivano lette le favole o che mi faceva ascoltare Verdi a 5 anni abbia influenzato il mio percorso. Non le so dire da quale luogo del mio subconscio ma un passaggio di testimone c’è stato. Nell’impianto registico no. A proposito di mio padre e del Macbeth: ho scoperto che avrebbe dovuto curare la regia di due produzioni in parallelo, uno teatrale e uno operistico e avrebbe dovuto farlo con Maria Callas nei panni di Lady Macbeth. Sul podio Riccardo Muti. Ancora oggi mi domando come è stato possibile che sia saltata un’operazione produttivamente così potente…

Ha citato Muti che proprio recentemente ha attaccato l’uso di eccessive ‘provocazioni’ registiche. Dunque, quanto si può permettere una regia nel melodramma?
È un’arma a doppio taglio. Mi affaccio ora, qui al Comunale di Bologna, alla lirica però è un tema molto dibattuto anche nel mondo della prosa da cui provengo: penso semplicemente che bisogna sempre rispettare il testo e il suo spirito, detto ciò la tecnologia ben venga. Video, audio, luci… dipende sempre da come si utilizzano o da chi le usa. Se un video diventa solo decorativo svelando l’impossibilità di immaginare altro allora è inutile metterlo. Bisogna saper distinguere tra un qualcosa che possiede un pensiero critico e un orpello fine a se stesso. Come diceva Flaiano, personalmente amo ‘mangiare in bianco’, le regie più interessanti sono quelle fatte in sottrazione: all’inizio di ogni progettualità, di ogni brainstorming bisogna buttare sul piatto mille idee e poi trovare la forza e la lucidità di ‘togliere’ rimanendo con gli elementi fondamentali: all’inizio bisogna percorrere mille strade ma poi quando ci si siede a tavola bisogna cucinarsi uno spaghetto aglio e olio.

Preparandosi a questo debutto nella regia lirica ha passato in rassegna le ‘fonti’, anche cinematografiche, o ha preferito ignorarle?
Ho visto o rivisto tutto, film e regie liriche. Il mio sarà molto diverso, completamente diverso ma posso dire che il Macbeth diretto da Roman Polanski rimane una potentissima parabola sulla ferocia che sprigiona dall’inconscio. È un film che colpisce perché al suo interno si percepisce una forza strana e malsana e non a caso lo girò poco tempo dopo il massacro di Bel Air della setta di Manson con l’assassinio della moglie Sharon Tate e del figlio che portava in grembo. Così come trovo allusivamente chirurgico quel capolavoro che è Il trono di sangue di Akira Kurosawa e ho ammirato la messa in scena di quel maestro inarrivabile della luce che è Bob Wilson fatta proprio qui a Bologna. Come detto, anche il nostro Macbeth ha molto a che fare con luce e buio: l’eclissi di sole che cala sul regno, il risveglio di Macbeth dopo la seconda visita psicoanalitica alle streghe, una sorta di risveglio da un viaggio allucinogeno. Proprio nell’opera lui torna in sé in un luogo che Verdi non descrive: non è più da nessuna parte, è in un non luogo assoluto. E lui racconta, come si risvegliasse di colpo da una seduta di ipnosi o dagli effetti potenti di una droga allucinogena. Ecco perché mi sono immaginato, nel momento del duetto potentissimo ‘ora di morte e di vendetta’, questa luce accecante sparata dal ledwall, quasi fosse l’esplosione di una bomba atomica, come se sul mondo si diffondesse un’ultima luce che poi ci porta a ‘patria oppressa’ e a sprofondare prima in un buio assoluto per poi risvegliarci in una sorta di paesaggio post apocalittico devastato da una bomba all’idrogeno.

Tantissime regie di prosa ma ancora latita il cinema.
Ho dedicato i miei ultimi 15 anni al teatro per scelta, amore e passione ma sento che è arrivato il momento di confrontarmi con il cinema e proprio in questo periodo sto iniziando a elaborare un pensiero che mi porterà sul set. Ma attenzione, teatro e cinema per me pari son, lungi da me pensare che il passaggio al cinema rappresenti un salto di qualità: sono mezzi diversissimi ma entrambi straordinari.

Torniamo sul palco allora. Anche a Bologna è approdata la sua ultima regia ‘The City’ dell’inglese Martin Crimp, uno dei nomi di punta internazionali della drammaturgia contemporanea più destabilizzante. E ai testi di autori contemporanei lei si è dedicato molto e si sta dedicando
Si tratta di un testo straordinariamente stratificato scritto da un grandissimo e degno erede di Beckett o Pinter. La parola di Crimp è una parola post apocalittica che si ricompone dalle ceneri del linguaggio. Siamo in un finto interno borghese dove viviamo quella che sembra la semplice cronaca di un disamore di coppia: nei dialoghi e nello spazio stesso si aprono delle fessure che fanno entrare angosce, ossessioni, nevrosi del mondo di fuori, guerre comprese. Lei è una scrittrice, il marito vive la tragedia delle professioni flessibili di oggi che ci permettono di cambiare lavoro magari più agevolmente ma allo stesso tempo di perderlo da un momento all’altro. E poi si parla di città intese come grandi non luoghi del contemporaneo tra mega aziende e stazioni che sembrano costruite per facilitarci la vita quando in realtà finiscono per alienarci ed estraniarci da noi stessi. Combatto da sempre una battaglia nella prosa per aprire finestre sulla drammaturgia contemporanea: la porto sulla scena, la inseguo, curo anche una collana editoriale dedicata a questi testi.

Lei ha studiato, vissuto, lavorato tra Inghilterra e Stati Uniti: rispetto all’Italia ne vogliamo parlare?
Qui lo spazio è esiguo, in Inghilterra esistono i dipartimenti di drammaturgia dove si consente ai giovani autori di crescere e di sbagliare. È grave questa assenza culturale italiana e lo dico da persona che si è formata sui classici. Il tempo che viviamo è fondamentale e deve essere narrato. Spero un giorno di poter dirigere un teatro e allora la mia battaglia sarà in questa direzione con l’apertura di un dipartimento di drammaturgia. Il Novecento inglese è fatto dai Beckett, Pinter e Crimp; il Novecento italiano dai grandi registi come Strehler, Ronconi o Castri che hanno preso i grandi classici e li hanno riscritti e ripresentati, spettacoli eminentemente di regia che hanno prodotto certo frutti straordinari.

Ma…
Ma a Londra il nome più grande in cartellone, quello che attira il pubblico, è il nome dell’autore, da noi magari l’attore che ha avuto successo con l’ultima soap. E qui mi fermo che è meglio…

‘Macbeth’ e la sua contemporaneità?
Inevitabili le allusioni alle guerre che ci coinvolgono e circondano; come regista avrei potuto scegliere quella strada esplicita ma ho preferito sondare il privato e l’inconscio di un essere umano. Anche le guerre là fuori nascono sempre da una guerra privata o interiore che psicopatologicamente conduce qualche individuo verso una deriva strana. Tutto in fondo è sempre frutto dell’inconscio e il prodotto dell’essere umano, macchina assai imperfetta e ancora ignota a se stessa. Macbeth viene associato alla tragedia del male contrapposto al bene, il nero contro il bianco: io invece lo colloco in una zona grigia in cui i ruoli di carnefice e vittima non sono chiaramente designati ma ben più sfumati e noi stessi siamo chiamati ad immergerci dentro questa contraddizione, che anzitutto fa parte di noi. E se il finale non è rassicurante è solo perché non sarebbe possibile: non è così la vita.